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“Pubblicheremo ancora foto delle nostre vacanze, o i nostri pensieri del momento, se non potessimo avere la certezza che almeno una persona li abbia visti? Difficile da credere.”
Solitudini connesse. Sprofondare nei social media (Editore AgenziaX) è un saggio denso di stimoli per riflettere su noi stessi e sui nostri comportamenti. Queste pagine indagano il modo in cui i social hanno modificato i più importanti riti di passaggio della vita adulta: nascere, morire, incontrarsi, lasciarsi, crescere, invecchiare non sono oggi più gli stessi dopo soli 15 anni dalla nascita di Facebook. Potevamo forse non fare due chiacchiere con l’autore?
Lui è Jacopo Franchi, ha 32 anni, lavora come social media manager freelance in ambito tecnologico e finanziario, ed è autore del blog di divulgazione Umanesimo Digitale – “dove la parola Umanesimo esprime sia la tensione verso uno sguardo d’insieme sul nuovo mondo digitale, distinguendo tra quelle che sono le promesse di un futuro desiderato e quello che effettivamente è lo sviluppo contingente e imperfetto delle tecnologie, sia la necessità di mantenere al centro delle spinte centrifughe, che allargano continuamente i confini dello spazio virtuale, l’uomo e il suo bisogno di realizzazione sociale, morale e culturale”.
Buona lettura.
Quali sono le prime scintille di riflessione che ti hanno portato poi a scrivere il tuo libro Solitudini connesse? C’è stato un evento, un libro, un comportamento scatenante?
La constatazione del fatto che a distanza di mesi dallo scandalo Cambridge Analytica non vi fosse stato alcun significativo “riflusso” dai social media mi ha portato a interrogarmi sui motivi di questa straordinaria resilienza da parte dei social nelle nostre società, pur a fronte di un mutato “sentiment” dell’opinione pubblica nei loro confronti.
Oggi tutti dichiarano di utilizzare sempre meno i social, di non pubblicare più contenuti, di accedervi solo per dare una rapida controllata agli ultimi eventi. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: che cosa ci tiene ancora legati a essi, al punto da ridurre la nostra presenza al minimo indispensabile ma senza comunque portarci a chiudere e cancellare definitivamente l’account? La risposta che mi sono dato è che i social hanno creato una nuova modalità di relazione tra esseri umani che non trova paragoni al di fuori di essi. Un esempio? Ad oggi, ci viene naturale “consultare” il profilo di una persona sconosciuta poco prima di incontrarla di persona. Si tratti di un possibile datore di lavoro, di un collaboratore, di una persona che ci ha invitato fuori a cena, non possiamo resistere alla tentazione di “dare un’occhiata” al suo profilo Facebook o LinkedIn (e a insospettirci se questo non è presente).
Difficile rinunciare a questa possibilità di raccogliere informazioni preziose sugli altri, a insaputa di questi ultimi, per motivi di sicurezza personale o semplicemente per ridurre l’ansia da primo incontro: soprattutto in un mondo dove vengono meno quei legami familiari e comunitari che un tempo favorivano il passaggio di queste stesse informazioni da un individuo all’altro in maniera istantanea. I social sono una risposta, seppur parziale, all’atomizzazione delle nostre società, iniziata ben prima di Facebook.
Quando entriamo in un vagone del treno, della metro o del tram e vediamo tutti quanti chini sul cellulare, a cosa stiamo assistendo? Siamo soli fisicamente, ma connessi a dialogare digitalmente: come la vedi?
Proviamo, per una volta, a rovesciare questa situazione comune nel suo opposto di cui siamo meno consapevoli: facciamo finta di entrare non visti in una qualunque casa abitata da una persona single, e osserviamola mentre passa un’ora del suo tempo a “scrollare” il suo feed di Instagram o di Facebook, passando senza soluzione di continuità da una notizia alla foto di un aperitivo pubblicata da un amico a un video in diretta di un evento che si svolge a centinaia di chilometri di distanza dalla sua abitazione. È lo stesso gesto, lo stesso bisogno: evadere per un momento da una realtà percepita come “fastidiosa” (la presenza di sconosciuti sul tram) o “statica” (la solitudine, magari non voluta) per provare la sensazione di muoverci altrove, di osservare il mondo da infinite prospettive diverse, quante sono le foto e i video condivisi dai nostri innumerevoli “amici” e pagine che seguiamo.
In fondo, i social non fanno altro che rispondere alla promessa fondamentale della tecnologia contemporanea: quella di “accelerare” la nostra esperienza, dando l’illusione di vivere molteplici esperienze attraverso lo sguardo degli altri (sguardo, ovviamente, che coincide con la fotocamera del loro smartphone). Esperienze, tuttavia, che non saranno mai completamente nostra: forse, una delle ragioni del malessere che i social media provocano ai più assidui utilizzatori non è tanto il sorgere di un sentimento di “invidia” verso gli altri, quanto la consapevolezza che ciò che vediamo attraverso il loro sguardo non ci appartiene veramente, non diventerà mai parte dei nostri ricordi e del nostro vissuto. Un’evasione: nient’altro.
Una terza domanda secca adesso: la Rete ci ha reso più pigri?
È indubbio che la presenza di algoritmi di profilazione abbia avuto come effetto quello di metterci nella condizione di non poter governare più di tanto il processo che porta un determinato post, una determinata news o informazione a “raggiungere” il nostro newsfeed. Tuttavia, non siamo arrivati al punto da attendere “pigramente” e arrendevolmente i contenuti che l’algoritmo ci propone: semmai, sprechiamo una notevole quantità di energie nel tentativo di governare il nostro personale newsfeed, bloccando determinate persone, silenziando determinate pagine, assegnando “mi piace” a quelle persone e quelle pagine che più di altre vogliamo vedere con maggior frequenza nel nostro flusso.
Più che pigri, siamo frenetici: è la frenesia di chi prova in ogni modo a farsi capire da una “macchina”, con le poche possibilità espressive concesse a sua disposizione. Il fatto di non riuscirci, o di riuscirvi solo in parte, e di essere vittime inevitabilmente di fenomeni come le “echo chamber”, non vuol dire che ci siamo arresi del tutto al modello di utente passivo, prevedibile e “quantificabile” in cui i social vorrebbero trasformarci.
Riguardo al futuro, e al digitale e all’uomo, sei più ottimista o pessimista? Supereremo bene il disincanto?
Nel corso degli anni ho assistito alla diffusione rapidissima di fenomeni estremamente negativi e all’altrettanto rapida crescita della consapevolezza da parte degli utenti. Ad esempio, penso che oggi molte persone siano maggiormente predisposte a valutare per tempo le conseguenze negative di un certo tipo di azioni apparentemente innocue: ad esempio, è più difficile, oggi, imbattersi in “meme” virali nati dalla condivisione di video o fotografie pubblicati in Rete contro l’esplicita volontà delle persone ritratte (penso, ad esempio, a un caso di revenge porn di dominio pubblico).
Oggi tutti siamo più o meno consapevoli che quello che per noi potrebbe essere un divertimento di pochi secondi per un’altra persona potrebbe trasformarsi nella rovina della propria reputazione professionale e personale. Sarà lo stesso, penso, anche per le “fake news”: dopo questo periodo di apparente impotenza collettiva, da un certo momento in avanti si diffonderà trasversalmente la capacità di dubitare di quelle notizie che sembrano screditare senza possibilità di appello una persona, un’impresa, un partito politico.
L’antidoto si può diffondere con la stessa rapidità della “malattia”, seppur con inevitabile ritardo rispetto a quest’ultima: tutto dipende dalla volontà e dalla pazienza degli utenti più “esperti” e consapevoli a fare opera di informazione e sensibilizzazione verso quelle categorie di persone che non hanno le capacità, la sensibilità o semplicemente il tempo per sviluppare una propria consapevolezza digitale. Almeno, fino a quando non si inizierà a investire nell’alfabetizzazione digitale di massa per tutti e tutte le età.
Infine, il tuo approccio all’Umanesimo Digitale è molto interessante. Ci sono letture e approfondimenti che ci consigli?
Non credo che si possa pienamente comprendere il successo di certi fenomeni digitali senza avere bene in mente quelli che sono stati i grandi sconvolgimenti della storia recente. Probabilmente, Facebook e Twitter sarebbero rimasti un fenomeno di nicchia se la più grande crisi economica dell’ultimo secolo non avesse costretto milioni di persone in tutto il mondo a cercare un’alternativa “gratuita” e “accessibile” al venir meno della propria capacità di sostenere economicamente una vita sociale al livello delle aspettative della propria “classe” sociale di riferimento.
Così come è difficile comprendere il successo di Amazon se non si conoscono le difficoltà del commercio al dettaglio degli ultimi vent’anni, costretto a confrontarsi con le maggiori risorse finanziarie e strategiche della GDO e con il venir meno del ricambio generazionale dei propri addetti, ben prima che un clic sul web ricreasse l’esperienza di “prossimità” e istantaneità del negozio di quartiere.
In linea generale, per il mio libro e per il mio lavoro trovo maggiore ispirazione nei saggi recenti di economia, sociologia, filosofia che non nei manuali o negli articoli che parlano unicamente di tecnologia. Gli algoritmi, in fondo, sono una nuova forma di narrazione: creano un mondo fantastico dove le persone cercano rifugio, evasione, protezione dalle paure e dalle incertezze del presente. Riconoscere le problematiche della società odierna, dentro e fuori il mondo digitale, aiuta a comprendere i motivi del successo dei social media e riconoscere i limiti, contraddizioni e imperfezioni delle “utopie” dei loro creatori.
a cura di Francesco Tragni
Ellin Selae n. 144, agosto 2019
Segnaliamo sempre con piacere i libri che – dopo anni di entusiasmo acritico – approfondiscono e mettono in guardia dagli aspetti dannosi (e patologici) che si celano dietro l’invasione dei social nella vita di ogni individuo di qualsiasi razza, religione, cultura e latitudine. Ed è ancora più interessante quando a parlarne è proprio un “social media manager” come l’autore di questo libro, perché più di ogni altro conosce il nemico, ossia quel mostro fatto di algoritmi, che ci costringe a prestargli tutto il nostro tempo e la nostra attenzione. Non è infatti un libro contro i social, quanto una analisi per capire esattamente cosa ci tenga legati a essi, e cosa siamo diventati dopo anni di esposizione quotidiana al loro flusso interminabile di nuovi “post” e tweet da leggere. Vanità, omologazione, dipendenza da like, alienazione? Nessuno di questi motivi è sufficiente, da solo, a spiegare perché non siamo ancora in grado di cancellare il nostro doppio digitale una volta per tutte. Eppure è una relazione senza più fiducia reciproca (ad esempio oramai sappiamo che Internet non è la verità ma, anzi, il regno delle fake news…), ma nella quale riponiamo ancora enormi aspettative: non siamo in grado di immaginare il nostro futuro senza avere almeno un social a portata di mano, eppure ci guardiamo intorno in attesa di una qualsiasi via di fuga verso l’esistenza “disconnessa” di un tempo. Se nello smartphone c’è qualcosa di cui non possiamo più fare a meno, di certo non vi abbiamo trovato quello che cercavamo: una vita reale più ricca divere amicizie, veri amori, vere opportunità… ciononostante la nostra vita è stata trasformata e manipolata dai social. Questo libro è il racconto di questa silenziosa trasformazione.
Di seguito un estratto dall’introduzione. «Abbiamo dedicato loro un numero incalcolabile di ore, pensieri e preoccupazioni negli ultimi dieci anni. A poco a poco siamo riusciti a creare il nostro piccolo patrimonio di “amicizie” e qualche centinaio di follower della più disparata provenienza. Qualche scambio di messaggi ha avuto seguito, molti si sono persi nel nulla della nostra distrazione e di quella altrui. Grazie a loro abbiamo assistito in diretta a tutti i più importanti eventi del decennio, documentandoci in prima persona e prendendo i nostri abbagli quando si è trattato di notizie non verificate, di testimonianze non veritiere. Ogni tanto ci siamo lasciati prendere la mano, e qualche discussione o commento infelice avremmo preferito non pubblicarlo, qualche particolare della nostra vita privata ce lo saremmo tenuti per noi (con il senno di poi).
Dopo l’avvio delle inchieste su Cambridge Analytica infine, è iniziato il riflusso: quelli che un tempo li esaltavano ora ne parlano in maniera per lo più negativa, dicendo di volerli abbandonare per noia, per rigetto, per timore che i propri dati finiscano in cattive mani, o semplicemente nell’illusione di aver trovato qualcosa di meno impegnativo. Tutti noi siamo in attesa del nuovo Facebook, del nuovo Instagram, del nuovo Twitter, come se le problematiche venute alla luce fossero state già comprese nei loro effetti più profondi e risolte miracolosamente in qualche riga ulteriore di codice (legislativo?).
Per molti di noi, oggi, sono diventati un investimento in perdita: di fronte ai social media siamo tutti dei giocatori d’azzardo che non riescono a staccarsi dalla macchinetta, la cui unica speranza per rientrare dalle perdite accumulate consiste nel continuare a giocare come se non ci fosse un domani. Oggi come oggi ci sembra solo di aver perso tempo, energie, idee, soldi e perfino amicizie dentro a Facebook: non sapremmo come recuperarli altrimenti, né possiamo essere sicuri che il modo migliore per reimpossessarci della nostra vita offline sia quello di eliminare il nostro doppio digitale.»
Carlo Martinelli
Avvenire, 7 febbraio 2019
Problemi relativi al trattamento dei dati, alla privacy, forme di dipendenza. Avremmo non poche ragioni per chiederci perché rimaniamo ancora sui social network, eppure secondo lo studio Digital 2019 di We Are Social con Hootsuite, solo in Italia sono 35 milioni gli utenti attivi ogni giorno sui social, con una penetrazione del 59% e una media di tempo speso – da qualsiasi dispositivo – di circa due ore al giorno. Tutto ciò, a fronte anche di una serie di saggi e articoli che suggerirebbero ben altro. Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social dell’informatico e pioniere della realtà virtuale Jaron Lanier (Il Saggiatore, pagine 212, euro 10) ne è un esempio, ma anche la ricerca americana di Plos One, che ha provato a misurare in termini economici quanto saremmo disposti ad avere per chiudere i nostri account. La risposta è stata monetizzata in circa 1.000 dollari per un anno, ma la domanda resta: perché rimaniamo?
Prova a rispondere Jacopo Franchi, social media manager, autore del blog Umanesimo Digitale e del libro Solitudini connesse, sprofondare nei social media (Agenzia X, pagine 192, euro 15): «Rimaniamo su queste piattaforme perché queste ci offrono possibilità relazionali e di comunicazione che non possiamo trovare altrove, a prescindere dai rischi – sempre più evidenti – riguardanti la nostra privacy. Non è tanto il vago connettersi con il resto del mondo, ma la possibilità di osservare gli altri a distanza di sicurezza, di modellare all’infinito un nostro doppio digitale migliore di quello originale, di interrogare il resto dell’umanità su qualsiasi argomento sia di nostro interesse: sono queste alcune delle possibilità che ci hanno esaltato nei primi anni di social media, e di cui ora facciamo fatica a fare a meno».
Al valore emotivo, poi, si aggiunge un valore economico, ovvero la (falsa) percezione relativa alla gratuità dei social, ben spiegata anche in La classe compiaciuta (Luiss University Press, pagine 252, euro 22), recente saggio di Tyler Cowen: «Noi – spiega ancora Franchi – lavoriamo per i social e partecipiamo a un esperimento di continua aggiunta di dati. Le ricerche sull’abbandono dei social sono un’espressione dello spirito del tempo, perché tutti se ne vogliono andare e sentono un vago malessere, ma non ne capiscono la ragione. Chi si cancella, poi, spesso finisce per usare altri account per dare un’occhiata a quello che accade in sua assenza. Credo che l’origine di questo malessere, più che il rischio per i dati personali, sia la presenza dell’algoritmo, che limita le nostre possibilità: l’algoritmo fa vedere i nostri post a chi vuole lui, non a chi vogliamo noi, e le due cose spesso non coincidono».
Ma cosa sono, di fatto, le solitudini connesse che danno il titolo al libro? «Non sono le solitudini individuali, perché sui social nessuno è troppo solo da non avere almeno cento “amici”. Sono le solitudini di chi si ritrova in uno strumento che, come diceva Eco, dà la parola a tutti, ma a pochissimi dà il potere di farsi ascoltare. È una solitudine difficile da quantificare: è quella di chi non soddisfa i requisiti dell’algoritmo, di chi non ha abbastanza contenuti da pubblicare, o di chi ha contenuti che non riscuotono abbastanza “mi piace”, e la cui potenzialità espressiva rimane inespressa». Le minoranze, gli anziani, i migranti, le persone in difficoltà economica. Ed è anche in questo solco che è nato il libro di Franchi, frutto di anni di lavoro sul campo e di riflessioni sul suo blog: «Le ragioni che mi hanno portato a scrivere questo volume sono essenzialmente due: la prima è una certa forma di strabismo relativa ai social. Spesso, ad esempio, non si fa distinzione tra messaggistica e social, tra Occidente e Asia. Si parla nello stesso modo di cose molto diverse tra loro. La seconda ragione è che spesso nelle pubblica zioni che riguardano i social, se ne parla come di macchine perfette, in cui l’elemento umano è considerato, ma come elemento neutro. I social hanno cambiato il mondo, ma anche il mondo ha cambiato i social». Un’analisi che apre porte sul futuro dei social media, sul format di domani e sul cambiamento silenzioso che questi mezzi stanno mettendo in atto, per esempio, a partire dai nativi digitali: «In generale – spiega Franchi – si è creduto che i più giovani sposassero queste piattaforme in virtù di un innato amore per la tecnologia, ma bisogna considerare anche un altro aspetto: i giovani vanno sui social per sfuggire allo sguardo degli adulti e i grandi hanno preferito che i ragazzi stessero lì per farli stare buoni, ma si sono chiesti poco o per niente qual è la vita dentro al mondo digitale e quali siano le conseguenze dopo anni di esposizione a uno strumento che ancora prima di diventare quello che è ora, era diverso. Di fatto i nativi digitali sono stati cavie da laboratorio dei social media, e tuttora non conosciamo gli effetti di questi esperimenti».
Quello che sappiamo è che, come spiega Franchi nel libro, «come tutte le idee umane, i social sono un riflesso della cultura che li ha generati. Una cultura elitaria, cosmopolita, poliglotta, che si sente a casa ovunque nel mondo», generando inevitabilmente uno scarto nella geografia delle relazioni all’interno di quella metafora di piazza virtuale che i social replicano. Ma quella replica non sostituisce i luoghi, li cancella, in una perdita di identità condivisa ai due estremi della scala: da una parte le élite, dall’altra le persone relegate «ai margini del tessuto sociale». E così, in quell’oscillare tra entusiasmo e scetticismo, si formano nuove solitudini, apparentemente connesse, ma in una prospettiva di attenzione ingannevole, mai scientifica, che illude possa corrispondere alla realtà, ma che – come spiega Franchi – è una realtà alterata: «Quando quello che abbiamo intorno ci frustra, ci annoia, non incontra le nostre aspettative, allora ci rifugiamo nei social che qualche moderatore ha già ripulito per noi e dove abbiamo il potere di cancellare e sostituire pagine e persone, in un continuo andare e venire dall’euforia di diventare virale, al parlare nel vuoto». Sensazioni che non possiamo avere al di fuori dei social. Ecco perché non rinunciamo, non li lasciamo, li incoraggiamo e ne siamo emotivamente e intimamente collegati.
di Eugenio Giannetta
Libertà, 26 gennaio 2019
«Se ancora oggi non riusciamo a staccarci dai social media non è solo una questione di “dipendenza da like”. Prima ancora che degli influencer i social sono il regno delle persone comuni, che hanno trovato in queste piattaforme delle maggiori possibilità di comunicare e relazionarsi con i propri simili. Possibilità che non avrebbero avuto altrimenti». Temi approfonditi da Jacopo Franchi, brillante trentenne fiorenzuolano oggi residente a Milano, dove lavora nell’ambito della comunicazione digitale. Ha appena presentato il suo libro Solitudini connesse. Sprofondare nei social media. Franchi, laureato a Parma in Lettere moderne con il massimo dei voti, durante l’università aveva fatto il suo Erasmus alla Sorbonne Nouvelle di Parigi. Nel 2012 è tornato nuovamente a Parigi per lavorare nel giornalismo digitale, come caporedattore di “Cafebabel”, magazine online paneuropeo.
Tornato a Milano, ha lavorato per diversi anni come social media manager nell’agenzia di comunicazione “The Story Group”, curando nel frattempo il blog di divulgazione umanesimodigitale.com. Oggi lavora nell’ambito delle nuove tecnologie applicate alla finanza, ma non ha abbandonato l’osservazione del fenomeno social media.
Allora questi super poteri social? Ci fai un esempio?
I social non sono il regno degli estroversi, ma per lo più dei timidi, degli insicuri, di chi ha paura ad esporsi. Ti faccio un esempio: solo sui social possiamo seguire un dibattito all’interno di un gruppo scegliendo se e quando manifestare la nostra presenza. Questo, in virtù del fatto che i social media non distinguono mai chiaramente quando un utente è online o offline.
Quindi ci sono persone che sprofondano per ore sui social, ma non postano mai nulla?
Esatto, Prendiamo le persone che si trovano in una condizione di disagio economico. Sui social possiamo rimanere “amici” per anni con loro, ma a conti fatti è come se fossero scomparsi: se non ci taggano negli eventi a cui non partecipano, se non postano foto delle vacanze che non possono permettersi, potremmo perfino dimenticarci di essere ancora “amici”. Sui social esistiamo solo quando pubblichiamo. Chi non può, o non vuole farlo, a poco a poco scompare dal flusso di notizie (e dalla nostra memoria).
Nel libro citi anche migranti e richiedenti asilo.
Sì, perché sono un esempio di “solitudini connesse”: possono rimanere connessi con chi è rimasto a casa, ma fanno molta più fatica a connettersi con chi ora vive accanto a loro. Grazie ai social sono legati a un passato che non possono più raggiungere, mentre gli stessi social non offrono loro gli strumenti per avvicinarsi più rapidamente e quanti potrebbero accoglierli e che vivono a pochi metri da loro.
Il famoso algoritmo come funziona?
Decide cosa possiamo vedere e da chi possiamo essere visti. Il flusso dettato dall’algoritmo ci porta a vedere di più o di meno certe persone, anche contro la nostra volontà. Si producono delle storture: vedi sempre la stessa persona, ti stufi e allora la cancelli, la blocchi o la metti in pausa per un mese. Oppure tu segui qualcuno e interagisci con i suoi post di frequente, ma quel qualcuno magari non ti vede. Si generano relazioni sbilanciate: potresti aver sviluppato una forte interazione con una persona che in realtà ignora cosa fai, chi sei. Il che genera una continua frustrazione.
I giovani stanno transitando da Facebook a Instagram? Facebook sopravviverà?
Tutti i social si sono conformati a Facebook nella struttura fondamentale. Io penso che il format sia molto forte e rimarrà perché è un vero e proprio nuovo media. Ora si sta affacciando un altro fenomeno: i chabot, ovvero utenze finte che parlano. Se questi si diffondono, eroderanno i social dall’interno. Così come vanno tenuti d’occhio gli assistenti vocali, come Amazon Echo o Siri. Io penso che ci sarà una tendenza sempre più importante a puntare sulla voce e lo scambio di messaggi attraverso la voce, per liberarci dalla schiavitù dello schermo.
di Donata Meneghelli
Perché vorremmo andarcene, ma non lo sappiamo motivare
Dopo aver liberato queste immense energie e possibilità i social hanno tuttavia scelto di gestirle e incanalarle attraverso uno strumento che dimostra oggi tutti i suoi limiti, sempre più inadatto ad assolvere al ruolo di organizzatore di quel “dibattito globale” che prende forma ogni giorno su Facebook o Twitter. L’algoritmo, che decide al posto nostro quali post e quali persone possiamo vedere all’interno dei nostri flussi di notizie, in questo senso non è tanto uno strumento pensato per servire le nostre esigenze, quanto per servire le esigenze dei social media stessi nell’organizzare un immenso flusso di contenuti che vorrebbe diffondersi e raggiungere ogni persona, ogni luogo della terra.
Con il loro algoritmo che favorisce i post con maggiore interazione rispetto a quelli che ne ottengono meno, i post più dibattuti rispetto a quelli che generano solo qualche “mi piace” distratto, i social favoriscono la connessione tra chi ha una domanda da porre e chi potrebbe conoscere la risposta, o conoscere qualcuno (da “taggare”) che a sua volta potrebbe conoscere la risposta. I social sono il motore di ricerca della conoscenza inedita che l’umanità nel suo complesso, ogni giorno, accresce grazie allo studio e all’esperienza. Sono un costante “passaparola” che non ha più restrizioni geografiche e linguistiche. Anche se i contenuti sono falsi, non verificati, e per questo stesso motivo ancora più intensamente dibattuti.
È l’algoritmo, e non i social in quanto tali, l’origine del nostro malessere e del disagio che proviamo oggi quando “sprofondiamo” per ore intere, quando non per giorni, all’interno di queste piattaforme. È lui che limita in automatico la visibilità dei nostri post, è lui che sceglie quali dei nostri “amici” e dei nostri follower potranno vederli, ed è sempre lui che decide che cosa possiamo vedere e chi possiamo vedere ai primi posti del nostro interminabile flusso di notizie. Anziché aiutarci a costruire un nostro personale palinsesto, ci ha reso una parte (mai troppo rilevante) del palinsesto di altre persone, nel tentativo continuo di conciliare ciò che possiamo dare agli altri con ciò che gli altri possono dare a noi, in termini di conoscenza ed esperienze condivise.
Quanti di noi sono in grado di adattarsi ai suoi continui aggiornamenti? Quanti hanno interesse a partecipare a una continua condivisione e validazione di nuove informazioni da immettere nel flusso? Quanti sono disposti a diventare una parte del palinsesto altrui? E in che misura l’algoritmo ci conosce veramente, o non conosce piuttosto quello che abbiamo deciso di mostrare di noi stessi, per piacere agli altri? Il fatto che ogni nostra azione sia costantemente misurata per definire quello che potremo vedere o non vedere nel nostro flusso di notizie è solo uno degli esempi di quanto le possibilità che i social ci offrono siano in misura se non inferiori, perlomeno pari a quelle che ci sottraggono.
Le solitudini connesse
È quindi una continua tensione tra infinite possibilità di relazione e comunicazione con gli altri, e infinite limitazioni alla diffusione dei nostri contenuti e al modo in cui vediamo quelli degli altri, quella che caratterizza i social e che ci fa continuamente oscillare tra l’entusiasmo e lo sconforto. Una tensione che, tuttavia, se genera un malessere sopportabile nelle persone comuni e consapevoli di queste dinamiche, può avere effetti deleteri per coloro che riescono meno di altri a sfruttare le possibilità offerte dai social e rimangono alla mercé delle loro, quelle sì, implacabili regole.
Sono le solitudini plurali, quelle di interi gruppi e categorie di persone che sono presenti sui social, che appaiono come utenti con le stesse potenzialità di altri, ma che in realtà si ritrovano a essere marginali anche su queste piattaforme, così come lo sono nella vita offline. Sono gli anziani, che non possono per raggiunti limiti di età e di lucidità tenere il passo con gli aggiornamenti costanti e l’imprevedibilità di piattaforme concepite per rispondere al bisogno di novità costante dei più giovani. Sono le persone con qualche forma, anche lieve, di disagio mentale, che sui social non hanno modo di essere distinte dalle altre e di godere di maggiore tolleranza o delle protezioni che il loro stato specifico richiederebbe.
Le solitudini collettive dei social sono anche quelle dei migranti, che attraverso i social conservano l’illusione di rimanere vicino a coloro che hanno dovuto abbandonare per sempre, senza tuttavia avere la possibilità di entrare rapidamente in contatto con la popolazione che dovrebbe accoglierli e aiutarli. Sono le solitudini di chi si trova in condizione di povertà e che non ci tiene a mostrarla ai propri contatti, a condividere una situazione di disagio materiale agli occhi di amici, colleghi, possibili datori di lavoro. Non è un caso, infatti, che i social siano cresciuti nel pieno della crisi economica, dandoci la possibilità di rimanere “amici” di persone che sono repentinamente scomparse dal nostro flusso di notizie.
Sono le solitudini delle stesse élite, che attraverso i social possono illudersi di vivere in un mondo di soli scienziati, giornalisti, intellettuali, salvo poi risvegliarsi bruscamente ogni volta che la realtà si palesa all’interno del loro network autoreferenziale da cui si sono illusi di poter scartare preventivamente ogni opinione di segno opposto. Sono le solitudini, infine, degli stessi nativi digitali: i social media hanno reso i giovani più tranquilli, casalinghi, silenziosi, in una parola controllabili dai genitori, ma li hanno anche portati all’interno di un mondo dove non si fanno esperienze, ma si assiste a quelle degli altri, dove non si è mai “amici” alla pari, ma si può essere al massimo follower o hater di qualcun altro. E solo ora ci viene il dubbio, atroce, di aver lasciato i più giovani a misurarsi con un algoritmo che su di loro è stato testato e perfezionato nel corso degli anni. Senza che le nostre migliori menti siano ancora in grado di controllarlo, né tantomeno di comprenderlo.